Nella nostra cultura il lupo è un animale “orrendo”, famelico, assassino, opportunista. Nella nostra cultura dare a una persona del lupo, o a un gruppo l’epiteto di “branco di lupi” è un insulto, una macchia, una accusa.
I lupi e i loro branchi, nelle favole delle nostre nonne, si aggirano di notte pronti ad assediare case e cascina, assetati di sangue di bestie e persone.
Ma, sotto questa fama gotica, si nasconde un’animale ben diverso: un animale schivo, con una struttura sociale complessa e un grande senso del “gruppo”. Certo, bisogna avere la voglia e la coriusità di andare a scavare sotto il pregiudizio.
C’era una volta, e c’è ancora, un lupo. Questo lupo, che gli uomini chiamano Achille, ha un branco, il branco del Monte Rufeno. Achille un giorno, per sfiga, finisce in una tagliola, ne esce vivo – alla faccia di quel criminale del bracconiere – ma ne esce menomato per sempre. Achille, un animale selvatico, resta zoppo. Fa fatica a camminare, figuriamoci a correre o a cacciare. Ma non è Achille, il *mio* lupo. Il *mio* lupo è un qualunque lupo di quel branco, uno di quei lupi di cui le cronache non ci riportano il nome, ma che da due anni si prendono cura di Achille, cacciando per lui, aspettandolo pazientemente durante gli spostamenti, e combattendo metro per metro con il compagno sfigato. Perché non si lascia indietro nessuno, mai.
Quando sono nata, il lupo italiano (canis lupus italicus) era ridotto ai minimi storici, il censimento di Boitani / Zimen riporta 100-110 esemplari nel 1976
Da ragazzina ero (già) strana. Alle medie, quando tutte le mie coetanee sognavano di vedere Simon Le Bon – o chi per esso – e giravano per i concerti, io giravo per i boschi sognando di vedere il lupo. Sognavo, sognavo solo, al tempo la popolazione lupesca in Italia si era ridotta a circa 250 esemplari (stima per il 1986 del gruppo lupo Italia).
Qualche anno dopo il mio primo (o quasi) fidanzatino rispondeva al fatidico “chi è?” al mio citofono con uno scanzonato “il lupo”. Correva l’anno 1991, io continuavo a scorrazzare nei boschi sognando. l’anno precedente il gruppo lupo Italia stimava 400 esemplari sul nostro suolo.
Attorno all’anno 2000 la mia presenza nei boschi e sulle alpi ha avuto un incremento notevole, grazie alla speleologia. Ho percorso a piedi centinaia di km essenzialmente sulle alpi marittime. Erano gli anni in cui, timidamente il lupo aveva cominciato a lasciare gli appennini, per avventurarsi sulle alpi. In val Tanaro e Pesio, grazie anche agli sforzi dell’ente parco, il lupo era una presenza tangibile e talvolta visibile, e io l’ho visto sul Marguareis una tarda estate: un fantasma silenzio e sfuggente, timido e schivo. Non aveva niente a che vedere con l’essere crudele e spietato dei racconti dei nostri vecchi o delle favole, sembrava piuttosto uno spirito antico della montagna, pacifico e solo. (erano gli anni dei primi avvistamenti stabili del lupo in Piemonte – il branco di Val Pesio e branco del Gran Bosco sono documentati dal 1996 – , dei primi progetti piemontesi di studio, e il lupi in Italia, secondo la stima del gruppo lupo Italia erano 600).
Da allora ho continuato a camminare, guardando le orme e le ombre, ma lupi, liberi non ne ho più visti. Ho fatto però da spettatore della seconda fila esultando alla formazione di ogni nuovo branco nelle mie valli (branco di Bardonecchia: 2000; Branco della Val Chisone: 2000; Branco dell’Orsiera: 2006; branco della Val Germanasca: 2006) e sperando per ogni lupo ferito che stato avvistato, catturato e curato – o almeno ci si è provato.